Ambrogio Valtolina rianima la memoria dei deportati da Imbersago all’incrocio tra le carte d’archivio e la viva memoria dei famigliari. L’autore raccoglie in un volume l’incontro tra i documenti e le interviste: Le tenebre e la luce, tirato in 1.500 copie per la prima edizione (aprile 2016) a cura del Comune di Imbersago e con il contributo di ProLoco Imbersago, Guarda, c’è un libro nell’albero e Videopiù. Segue la recensione curata da Martina Molino.
È facile pensare ai grandi avvenimenti storici come lontani da noi, ormai, nel tempo e anche nello spazio. E quando, da realtà, diventano parole in un libro di storia, osserviamo i fatti, e soprattutto le persone dietro a essi, come reperti in una teca di vetro, muti pezzi di un museo. Disimpariamo a leggere tra le righe le lotte, i sentimenti, le speranze, la vita.
Per fortuna c’è chi si impegna a ravvivare la fiamma della memoria e della consapevolezza. Ambrogio Valtolina, aiutato da un gruppo di giovani, ha condotto una puntuale ricerca storica sui deportati di Imbersago, presentata nel 2015 e poi divenuta, appunto, un libro (Le tenebre e l’alba. 1943-1945: i deportati di Imbersago nella storia e nel ricordo delle famiglie, 2016).
24 storie di deportati, simili ma diverse, la cui linfa primaria sono i documenti scritti dell’epoca, nero su bianco, incontrovertibili, che parlano con una doppia voce: da un lato, quella degli atti ufficiali e delle comunicazioni tra le autorità e le famiglie (formali trascrizioni del decesso, verbali di interrogatorio del Reduce, registri militari…); dall’altro, il suono caldo delle cartoline e delle lettere tra il prigioniero e i suoi cari. Tutti i documenti sono riprodotti nel volume, ed è proprio questo che aiuta il lettore a toccare con mano il passato per restituirgli quella dimensione di realtà che gli spetta. Il commento di Ambrogio Valtolina funge da preziosa guida e unifica le parole di carta con quelle orali, riportando le testimonianze e i ricordi dei parenti dei deportati.
Mario Achille Galbusera Giuseppe Marcello Lavelli, Alpino
La data di discrimine è l’8 settembre 1943, il giorno il cui viene annunciato l’armistizio di Cassibile (firmato segretamente i 3 settembre): da alleati dei Tedeschi, gli Italiani diventano traditori e, quindi, nemici. Iniziano allora i rastrellamenti e le deportazioni dei militi, ormai lasciati a loro stessi, in Austria, in Italia, Germania, Polonia. Da lì, i destini dei deportati si dipartono simili tra i cognomi tutti nostrani: Colombo, Magni, Villa, Riva, Bonfanti, Mapelli…
C’è chi viene deportato in un campo di lavoro, chi in un campo di prigionia. Gli italiani sono ormai solo manodopera da sfruttare fino allo sfinimento. Le condizioni di vita sono difficili, il lavoro è massacrante. E poi il cibo: ritorna insistente, nelle vicende di numerosi dei protagonisti, il racconto delle spedizioni notturne dei prigionieri per recuperare qualche scarto o buccia di patata dai bidoni dell’immondizia, rischiando di essere scoperti e uccisi sul posto dalle guardie tedesche. Per di più, dopo la liberazione, la beffa oltre al danno: il dover respingere la tentazione di potersi finalmente abbuffarsi, perché il corpo non è più abituato a ricevere cibo in abbondanza.
Non tutti i deportati sopravvivono, e sovente la morte giunge proprio a causa del deperimento, oppure poco dopo il ritorno in patria, tra le braccia dei cari appena ritrovati, per le malattie contratte oltralpe. Le vicende del rimpatrio sono un ulteriore leitmotiv: le attese per la partenza che non avviene quasi mai subito al termine della guerra, la lunga marcia forzata attraverso la Germania meridionale, l’assistenza puntuale della Croce Rossa, e ancora l’interrogatorio davanti alla commissione militare che accerta la non collaborazione con i Nazisti e la licenza standard di 60 giorni. Chi torna rammenta spesso di non essere stato subito riconosciuto dai familiari, tanto la sofferenza li aveva ridotti a larve umane.
Talmente incredibile è stato questo soffrire, che gli amici talvolta non credono ai racconti dei deportati. Talmente inenarrabile, che alcuni preferiscono non parlarne per dimenticare. Benedetti furono i libri e chi li scrisse, dunque, perché ci ricordano di replicare sempre il coraggio e mai il male.
Martina Molino
Caro Ambrogio, congratulazioni per questo libro , certamente frutto di non facili ricerche, ma soprattutto meritorio per tener vivo il ricordo di una pagina triste della nostra storia che non dobbiamo dimenticare. Un abbraccio
Buongiorno Generale. La ringrazio delle congratulazioni che sarà mia cura recapitare ad Ambrogio Valtolina. Intanto, con viva stima, Cristian B. (referente Ecomuseo “Adda di Leonardo”).