Vorrei iniziare questo articolo circa la località più spettacolare e famosa dell’Adda, con gli appassionati versi scritti dall’illustre scrittore briviese Cesare Cantù e dedicarlo a tutti i nativi dei paesi che si affacciano sulle sponde dell’Adda che in questi righe si possono riconoscere, ma anche a tutti quelli che amano il nostro fiume e che vogliono saperne di più, riscoprendone le infinite bellezze:
“Addio, fiume, che dal principio del mondo scorri e scorrerai, incessante come l’umano pensiero! Addio, fiume che, errante al par di me, corri dopo lunghissimo giro a ritrovar la pace in quel mare donde riconosci la vita! Addio, mio fiume, nelle cui acque mi tuffai fanciullo, ed ora verrò a specchiare la fronte incanutita!” (Cesare Cantù – Sull’Adda)
Geologia, fossili e marmitte dei giganti
Sembrerà strano, a chi non sia del posto, sentire il nome dei Tre Corni quando si parla dell’Adda; qualcuno immaginerà qualcosa di strano riferito, magari, a una bizzarra leggenda che parla di corna. Ma la realtà supera qualsiasi immaginazione: i tre grandi massi di ceppo, che si ergono maestosi dal fiume e si innalzano con la punta smussata verso il cielo, segnano l’inizio della grandiosa e selvaggia forra, profonda più di 100 metri dal livello della pianura e che si estende nel territorio di Paderno d’Adda; territorio di cui quei grandi massi sono quasi l’emblema.
I Tre Corni sono probabilmente la propaggine della catena accidentata di ceppo che scendeva dal Vallone (profonda valle che si snoda sopra il tracciato della forra, ricoperta da boschi e sovrastata da incredibili alte pareti di ceppo) fino a sbarrare quasi totalmente il passaggio dell’acqua nel lungo crepaccio lasciato dal ghiacciaio in ritirata. La grande quantità d’acqua che scendeva dalle montagne ha fatto innalzare il livello dell’invaso a monte dello sbarramento. L’acqua ha così trovato uno sfogo in due punti deboli della catena: i fianchi del grande masso oggi chiamato cepp taja (ceppo tagliato).
Dal lato del crepaccio l’acqua ha continuato a scavare e sgretolare il ceppo, isolando i tre grandi massi che vediamo ora. Mentre dal lato opposto il taglio è stato determinato dal passaggio dell’acqua incanalata in una depressione del suolo. Si creò così un ramo parallelo al corso principale del fiume che isola, più a valle, anche il promontorio su cui sorgerà il Santuario di Santa Maria della Rocchetta e che, subito dopo, si riuniva sotto forma di cascata al corso principale. Con l’abbassamento dell’alveo del fiume, il ramo laterale è rimasto in secca, lasciando la traccia di un avvallamento, sfruttato nei secoli scorsi per la costruzione del Naviglio di Paderno. Conseguentemente il cepp taja ha subito due forti ridimensionamenti: prima per far posto al naviglio (1591), poi per il suo allargamento utile a portare più acqua alla centrale idroelettrica (1895).
Qualsiasi viaggiatore che si trovi a passare in questo luogo resterà ammaliato di fronte a ciò che la natura, in milioni di anni, ha modellato. Nei pressi dei Tre Corni si possono ammirare delle rocce nelle quali sono scolpite le curiose marmitte dei giganti. Sono buchi profondi e rotondi di origine glaciale creati dai vortici di acqua e sassi che si infiltravano attraverso i crepacci del ghiacciaio, colpendo in continuazione la roccia sottostante, fino a perforarla.
Nell’aprile 1949 proprio all’altezza dei Tre Corni, il cav. Giovanni Croce di Vaprio d’Adda rinvenne un molare di Mastodonte (animali con denti a forma di mammella), appartenente alla specie di Ananco d’Alvernia (Anancus Arvernensis, zanne diritte, senza curve). Il proboscidato estinto visse da 10 a 1,5 milioni di anni fa, si cibava di fogliame, arbusti e frutti, aveva un peso di 5 tonnellate ed era alto 3 metri. Il molare è stato donato al Museo Civico di Storia Naturale di Milano.
Il percorso tortuoso e accidentato della forra è interrotto in due punti da slarghi, con sembianze di piccoli laghi, che hanno la funzione di mantenere una certa quantità d’acqua nei periodi di magra, a beneficio della fauna ittica. Essi vengono individuati come Bacino superiore dei morti e Bacino inferiori dei morti. La macabra denominazione deriva dal comportamento dei cadaveri degli annegati che, giunti in questi bacini, non trovano la via d’uscita e seguono l’andamento del flusso d’acqua circolare, senza soluzione di continuità. Nel gergo popolare il significato è più immediato: moja di mort (morti in ammollo) oppure mola di mort (morti che girano come una mola). Oggi possiamo vedere il risultato del movimento dell’acqua dalla condizione dei tronchi di alberi depositati sulle sponde.
I Tre Corni di Cornate
Un’altra meraviglia che la natura ha plasmato nella grande forra di Paderno, poco a valle dei precedenti Tre Corni, sono questi tre alti pilastri di ceppo che si incontrano sulla riva sinistra del fiume, all’uscita del Bacino Inferiore dei Morti. Svettano in mezzo alla vegetazione, quindi sono meglio visibili nel periodo invernale, e assomigliano a sentinelle allineate a guardia delle pericolose rapide. Le credenze popolari raccontano che furono queste pietre, dette corni, a dare nome all’antica Coronate, oggi Cornate d’Adda, che comprendeva anche questi territori; ma a torto. Essi sono innocenti. L’ancòra più antica dizione di Campus Coronatae racchiude in sé la giusta sentenza.
Forra d’Adda, tre ispirati visitatori
Fra i molti visitatori illustri che vennero a contemplare il mirabile paesaggio naturale del medio corso dell’Adda, possiamo annoverare tre menti geniali che, per motivi diversi, fecero di questo territorio un motivo di spunto per i loro studi di carattere tecnico, letterario, artistico e culturale: Leonardo da Vinci, Cesare Cantù e Antonio Stoppani.
Leonardo da Vinci (1452-1519) arriva nel Ducato di Milano nel 1482, chiamato dal duca Ludovico il Moro come esperto di difese belliche, opere idrauliche e magnifico inventore di stupefacenti artifizi da mostrare durante le grandi feste tenute a corte. Egli girò tutto il Ducato in lungo e in largo. Più volte fu ospite, nella grande villa di Vaprio d’Adda, della famiglia del conte Gerolamo Melzi e da qui non tralasciò di risalire la Valle dell’Adda.
I suoi spostamenti si compivano a volte a piedi, quasi sempre a cavallo, ma anche ospite sui barconi fino a Trezzo o a Porto e quindi sui carretti che trasportavano le merci nel tratto non navigabile dell’Adda. Possiamo solo immaginare lo stupore di Leonardo quando si trovò di fronte la grande forra dentro la quale scorre il fiume: l’acqua impetuosa e spumeggiante che sbatte contro gli enormi massi di ceppo che disseminano il letto del fiume, la natura selvaggia delle sponde e il canto delle innumerevoli specie di volatili che facevano a gara con il frastuono delle rapide.
Questo era l’ambiente prediletto da Leonardo, durante le sue visite prendeva appunti e faceva schizzi per poi trasferirli nelle sue opere. In diverse sue opere, sia dipinti che disegni, si possono distinguere gli scenari fluviali, lacustri ed anche montani della Lombardia. Leonardo amava confondere i paesaggi che più l’avevano colpito, anche se appartenenti a diverse realtà.
In uno dei suoi primi dipinti eseguiti in Lombardia, commissionatogli dalla Confraternita dell’Immacolata Concezione che gestiva la chiesa di San Francesco Grande di Milano, Leonardo immortala alle spalle dei personaggi, rappresentanti la Vergine con Gesù Bambino, San Giovanni e un Angelo, i suoi elementi preferiti: l’acqua e la pietra. Il maestoso intreccio roccioso, probabilmente, appartiene al territorio abduano e in particolare si notano, sulla sinistra del dipinto, dei grossi massi di roccia che spuntano dal letto del fiume e che si possono identificare nei “Tre Corni. Il dipinto, noto sotto il nome de La Vergine delle rocce, si trova esposto nel Museo del Louvre a Parigi.
L’ostacolo alla continuità della navigazione fluviale tra Milano e il lago di Como era dovuto proprio alla grande forra di Paderno, nella quale i grandi massi non permettevano alcun passaggio. Il Duca di Milano volle risolvere questo problema, forse chiedendo a Leonardo di riflettere su un’opera idraulica che superasse tale difficoltà. Il Grande Maestro, dopo attenti rilievi, soprattutto ai Tre Corni, da dove sarebbe partito il suo progetto, stilò la sua sorprendente idea che si racchiude nella frase d’inizio del lavoro: facciasi una concavità ne’ Tre Corni dove si fermi il muro che chiude l’acqua. Il progetto era di erigere sul fiume una diga molto alta, a monte dei tre grandi picchi rocciosi, per poter così incanalare l’acqua nel tracciato secondario e parallelo al fiume ormai in secca, quasi un canale naturale che dopo circa due chilometri di percorso, sotto l’alto sperone roccioso dove è situato il Santuario di Santa Maria della Rocchetta, si sarebbe riversato di nuovo nel fiume attraverso la costruzione di una conca di navigazione perpetua alta circa 18 metri per la salita e la discesa dei natanti, da e per il fiume. L’ambizioso progetto di Leonardo era purtroppo, destinato a rimanere tale. La sua realizzazione implicava tecniche ardite che nessuno a quei tempi era in grado di mettere in opera.
L’attuale Naviglio inaugurato l’11 ottobre 1777 dall’Arciduca Ferdinando d’Asburgo, rappresentante dell’Impero Austro-Ungarico a Milano, è stato scavato sul tracciato di Leonardo ed è la felice conclusione di un progetto ideato dai Francesi tra il 1516 e il 1521, iniziato dagli Spagnoli nel 1591 e concluso appunto dagli Austriaci. La via d’acqua rimase in esercizio fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, allorché l’ammodernamento delle ferrovie, l’apertura delle prime autostrade e l’uso dei grandi mezzi di trasporto su gomma resero il trasferimento di merci sull’acqua non più competitivo.
Cesare Cantù (1804-1895) nativo di Brivio, grande personaggio storico, letterato, scrittore e politico, rimase sempre legato al suo paese natio e all’Adda, dove riposa nel cimitero locale. Quando ritornò a Brivio dopo diversi decenni, volle dedicare al suo fiume un libricino: Sull’Adda (1884) nel quale descriveva il suo intraprendente viaggio dalla sorgente alla foce.
Con dovizia di particolari, in queste pagine racconta luoghi, paesi, fatti storici e leggende oltre agli scorci più superbi dell’Adda. Troviamo qui anche il nostro territorio ed in particolare il tratto dove inizia la forra di Paderno che così descrive: “A Imbersago per un ponte volante, dalla strada provinciale milanese si tragitta alla bergamasca. Quivi l’Adda va crescendo di violenza, finché arriva alle Tre corna, ove dato una svolta rabbiosa, gettasi a precipizio fra ingenti sassi e scogli a schiuma d’acqua nel tratto di 2500 metri avendo l’enorme pendenza di metri 27.50. Impossibile dunque il navigar da Milano al lago se non si aprisse un canale artificiale”. Quindi prosegue descrivendo in modo preciso la storia del naviglio di Paderno.
Continua il Cantù descrivendo le macchinose e lunghe operazioni per superare le conche: “Il dover ripetere quell’operazione per sei sostegni fa consumare tre ore in quel tragitto: ed io lo scansai col percorrere a piedi la stradella dell’alzaia in parte, in parte un sentiero entro il bosco. Niente di più stupendo che questo passeggiare sulla costiera, larga pochi metri, che ad un margine vede nel canale volger quiete le domite acque, all’altro l’Adda fragorosa, spumeggiante, azzurra caracollare in gorghi, rompersi in sprazzi, battere giganteschi macigni, che fra quell’orrore stanno saldi come il giusto fra le persecuzioni del mondo”.
Certamente ciò che ammirò il Cantù è quanto possiamo vedere anche noi oggi, ma dalla sua descrizione si può facilmente dedurre che egli vide molta più acqua nella forra, dato che le due centrali idroelettriche che sottraggono decine di metri cubi d’acqua al secondo, non erano ancora state costruite.
Ma lo scrittore ci racconta anche un importante fatto: “Il canale è costruito di puddinga, che qui dicesi pietra molera e ceppo, talchè spesso fa pelo e guasti. Nella piena del 1810 un macigno caduto nell’Adda la ingorgò per modo, che quasi alzossi fin al livello del naviglio, e lo sfasciò. Nuovi disastri recava la piena del 1829, e continua attenzione è necessaria al fine di prevenire i piccoli sconcerti, che ne produrrebbero di grandi. Al qual uopo è destinato un custode, carica conservatasi quasi ereditariamente nella famiglia Vigevano, che prima vi fu posta”.
Nel toccante e avvincente romanzo storico Margherita Pusterla (1838) ambientato nel XIV secolo, il Cantù narra in un capitolo il tragico episodio, capitato a Lecco alla bella e sfortunata Rosalia che il marito, Ramengo da Casale, incolpandola di infedeltà l’abbandona col figlio neonato Alpinolo lungo l’Adda, sopra ad una barca malandata, alla fine di una giornata di maggio, con il fiume in piena. La descrizione del percorso della barca da Lecco alla foce dell’Adda è impressionante, ma è nel tratto della forra di Paderno, che il racconto assume la forma di una sfiorata tragedia: “Il fiume, che in quello spazio corre a rotta anche nei tempi ordinarj, ma a vero precipizio quand’è gonfiato, giunto al luogo che chiamano il Sasso di San Michele da una chiesuola erettavi dalla timorosa pietà, entra in un letto più angusto, con furia ancor più minacciosa. …e il fiume in balia di sé stesso dando volta, s’insaccava in quella stretta, che oggi ancora, benché difesa da salda e fitta travata, mette i brividi ai pochi naviganti che s’avventurano a passarle a lato, e che ripetono al piloto, ai rematori di tenersi ben rasente alla riva opposta, mentre si raccomandano al Signore, e rammemorano i non rari casi d’infelici, che l’inesperienza o l’impeto strascinò attraverso per le Tre corna, come viene chiamato quel gorgo. Di qua e di là del quale ergesi a picco una montagna, da cui i secoli divelsero enormi catolli, onde è seminato ed irto quel varco. Alcuni si alzano giganti da emulare i greppi laterali; altri sporgono appena a fior dell’acqua la cima tagliente; dell’acqua che, riurtata fra i massi, spumeggia loro intorno, si ritorce in sé stessa vorticosa, ruggisce sì che da lontano se ne ascolta il frastuono, come da lontano se ne vedono balzare le spume ad incanutire i più erti scogli, e diffuse in minutissima spruzzaglia, ingombrar l’aria d’una nebbia trasparente, e colorarsi dell’iride, rinfrangendo i raggi del Sol levante o del morente.
Intese la Rosalia il grave e minaccioso frastuono, poi vide quell’abisso; in soprassalto di terrore si scosse dal momentaneo assopimento, cacciossi le mani nelle chiome irte sul capo; aperse quindi le braccia, le tese colle dita aggranchite, spalancò gli occhi, la bocca ad un ah! disperato quando la barca fu presso, quando venne dal vortice strascinata. Al primo sobbalzo si credette morta; premette al seno il bambino, quasi il suo seno potesse sottrarlo da quel furore; avventò uno sguardo ansioso sulle rive, quasi lusingandosi che le potesse bastar la forza per recare, sventurata! attraverso quell’impeto, fin colà il diletto suo peso.
Udiva frattanto il fondo della barca crocchiare strisciando sul fendente dei macigni: era diguazzata ora dalle onde che sovverchiavano il legno, ora dal piovoso polverio, il cui quelle si risolvevano frangendo contro i ronchioni; ogni nuovo fiotto era una trafittura; nessuna era quella della morte. La morte coglie bensì l’uomo, contento fra le lautezze della gioja, ma risparmia l’infelice quando la invoca siccome termine delle sue miserie.
La sua barchetta, per non so qual ventura, ficcossi fra due scogli vicinissimi, uno dei quali, d’ingente mole, era stato rovesciato dal caso sopra l’altro, in guisa che questo gli serviva di puntello, come il guanciale a cui un gigante riposasse le membra enormi, stancate nella battaglia; e sotto al loro cavo, alcuna quiete avea quel bollimento. Ivi non percosse la barchetta sì forte da andarne spezzata, e il rincalzo delle onde ve la tenne come confitta e in tentenno fra il mugghio, fra i vortici, fra la spuma, fra la continua aspettazione della morte irreparabile.
La Rosalia si levò, curvossi sopra quell’acqua – un salto e più non comparire fuori, – e aver finito, finito questo prolungato crepacuore. – Ma, e il bambino? Oh finché pure un filo di vita restasse, bastava per attaccarvi la fiducia. Misurava coll’occhio l’ertezza di quelle rupi; arrampicarsi fin lassù… nulla pareva impossibile alla forza, dirò meglio, alla frenesia dell’amore materno. Ma e poi?… gente all’intorno non v’è: il rovinio delle acque non lascia intendere le chiamate. Avrebbe dunque a morir lassù di fame, dopo aver uno ad uno noverati i singulti del moribondo figliolo, dopo sorbito stilla a stilla il calice di quella desolata agonia. Ora la corrente, che tanto l’avea dianzi spaventata, le pareva desiderabile, come un rimedio, come l’unica speranza; poteva forse recarla ad una riva, dove alcuno la guardasse, la soccorresse. Ma qui, qui non altro poteva aspettare che la morte.
Risoluta pertanto ad avventurarsi di bel nuovo, col vigore che le infondevano il prepotente istinto della vita e la pietà materna, puntò le braccia contro quei massi, ne staccò la navicella aderente, sicché fra essa ed il macigno potesse mettersi un filo appena d’acqua, il quale di subito dilatandosi il passo, allontanò il legno, e spinse; l’istante dopo trovavasi ancora in balia della corrente, trovavasi fra nuovi gorghi, fra nuovi scogli, poi librata all’impeto dell’Adda che, emersa da quel sasseto, e ripigliando libero corso, la portava colla rapidità del desiderio”. Lascio al lettore di seguire, se vorrà, il destino dei due sventurati, leggendo questo meraviglioso romanzo storico.
Antonio Stoppani (1824-1891) nativo di Lecco, viene ordinato presbitero nel 1848: è stato un geologo, paleontologo, patriota e accademico. Morto a Milano, ora riposa nel cimitero monumentale di Lecco. Grande viaggiatore e scrittore, è autore del significativo volume dal titolo Il Bel Paese, nel quale racconta bellezze e ricchezze naturali dei luoghi d’Italia: voleva far conoscere agli Italiani il proprio paese, che considerava spesso trascurato rispetto allo studio di paesi lontani, invitando a coltivare il sentimento nazionale senza però prescindere da un’appartenenza regionale. Il LIBRO verrà pubblicato nel 1876 e, nella terza edizione del 1881, aggiunge cinque capitoli, uno dei quali riguarda proprio l’Adda a Paderno. Il capitolo IV, che s’intitola Il Reno a Sciaffusa e l’Adda a Paderno, è un confronto di straordinario effetto emotivo per i residenti del territorio abduano.
Racconta lo Stoppani di un suo viaggio in Svizzera nell’estate del 1877 e di aver visto per la prima volta allora le cascate del Reno a Sciaffusa: “Appena t’affacci alla rupe, dove il Reno appare d’un tratto come un mare di spume, il rumore, che prima s’udiva sordo e come in lontananza, ti si fa ad un tratto vicino, ti leva la parola, t’investe quasi con un’atmosfera di suoni gravi e d’acuti, che più non ti abbandona. Al primo sguardo che ti svela, come all’alzarsi d’una magica tela, tutto lo spettacolo della cascata, tu resti come esterrefatto. Bisogna lasciar luogo alla prima commozione; bisogna abituarsi un pochino a discernere tra l’indiscernibile del caos, per potersi render ragione di ciò che si vede. Ecco in alto il Reno, che s’inoltra maestoso e tutto d’un getto. Presso a raggiungere il ciglione da cui deve saltare, si turba, ondeggia come irresoluto, si copre di sfumature bianche e verdi, finché gli è tutto una spuma”.
Prosegue lo Stoppani nel descrivere minuziosamente lo spettacolo suggestivo e prepotente della forza dell’acqua, ma durante la contemplazione si rivolge ai compagni di viaggio esclamando: “Ma sì, qui c’è qualche cosa di molto somigliante alla conche di Paderno”. Poi mentre ritorna verso la città, pensa fra sé e sé: ”Se vi ha qualche cosa che assomigli alla cascata del Reno, sono proprio le conche di Paderno, cioè la rapida dell’Adda che si ammira in quel posto”.
Di ritorno dalla Svizzera, con l’idea fissa nella testa di rivedere Paderno per confrontare il Reno con l’Adda, si ferma a dormire a Lecco e il giorno dopo, 17 luglio, prende il treno diretto a Monza, scende alla stazione di Cernusco-Merate e raggiunge Paderno. Era una giornata luminosa e l’Adda era in piena. Ecco alcuni stralci delle sue considerazioni: “Alcuni passi avanti, comincia a mostrarsi il fianco sinistro dell’Adda; quindi l’Adda intera, colla sua rapida, co’ suoi scogli, colle sue conche, 60 o 70 metri sotto i tuoi piedi. E’ uno spettacolo incantevole, che ti richiama la marina di Capri, e certi littorali scoscesi, dove tra le rupi sconnesse biancheggia il mare coperto di spume. In fondo a quella valle, salvo i mulini e qualche casetta, tu non iscorgi né castelli, né palagi, né giardini, né paeselli, nulla o quasi che ti richiami ad ogni tratto, come a Sciaffusa, l’opera e la presenza dell’uomo. Qui tutto è natura; natura ancor vergine, quasi altrettanto com’era quando i fiumi serpeggiavano non visti da occhio di uomo. L’impressione che ne ricevi è pertanto più viva ed estasiante. Tu vedi però sul fianco destro dell’Adda una striscia d’acqua, che talora si scopre, talora si nasconde. E’ il Naviglio colle sue conche che, in mezzo a quello spettacolo tutto di natura, ti parlano eloquenti del genio dell’uomo.”
L’autore prosegue parlando della storia del naviglio e delle conche, poi riprende: “La piena dell’Adda toccava quel giorno, come ho già accennato, anzi superava la massima ordinaria. A terreno i mulini erano inondati, e le porte convertite in fiumi. La lapide marmorea incastrata nel muro dell’edifizio ci diceva per altro che quella piena rimaneva ancora circa due metri e mezzo al disotto di quella eccezionale del 1868, la maggiore, se non erro, di cui si abbia memoria. Però, come dico, l’Adda era gonfia, proprio vestita per le feste. La massima parte delle acque, superata la diga, precipitava a cascata, disegnando un gran cordone bianco attraverso il fiume. Con questo primo salto comincia quella rapida spaventosa, tutta irta di scogli, per cui l’Adda si precipita da una altezza di quasi 28 metri senza mai avere pace, sopra la lunghezza che abbiam detto di 2 chilometri e mezzo. Si chiama la Tricorne, ed è qui dove si svolge l’ultima scena dell’annegata, commovente episodio del romanzo Margherita Pusterla di Cesare Cantù. L’acqua, che in questo punto si dipartiva dal fiume per correre il canale, vi si precipitava con impeto grande”.
Lo Stoppani giunge nel punto in cui gli scaricatori del naviglio riversano la troppa acqua nel fiume, qualche decina di metri prima della conchetta, ecco la sua impressione: “Ritto sul ponte gettato sugli stessi scaricatori, coll’onda sotto i piedi orribilmente fremente, vedevo l’Adda buttarsi d’un salto dalle rupi, tutta d’un pezzo formando, benché poco alta, una vera cascata, a cui si opponeva, fieramente reagendo dal fondo, una cresta di marosi. L’acqua degli scaricatori, divisa in due belle cascate alte parecchi metri, la urtava di fianco. Quindi un turbinìo di spume ribollenti, un bianco polverìo di spruzzi come fitta nebbia, uno scompiglio, un fracasso indiavolato. Appiè di quella cascata si apre un vasto bacino dove il fiume si aggira rotando a spirale e disegnando un gran vortice tinto di tutte le gradazioni di bianco e di verde. Oltre quel bacino, altri salti, altri gorghi, altri scompigli. Ma se più dovessi fermarmi a descrivere, ripeterei per l’appunto troppe delle frasi e delle immagini già adoperate quando ho descritto la cascata del Reno. Un reduce dal Canadà, additando l’Adda agli amici in quel punto, diceva: – Questo vi dà un’idea del Niagara. – Non potrò dire io dunque che l’Adda in questo punto e il Reno presso Sciaffusa si assomigliano?”.
Durante il percorso lo Stoppani fa delle profonde riflessioni su ciò che lo circonda: “Quale contrasto tra il Naviglio a destra, dove l’acqua scorre così placida e piana, accarezzando e pettinando le alghe, che si rizzano oscillanti dal fondo, ignara affatto della guerra che succede all’imbocco; e il fiume a sinistra che freme e mugge buttandosi giù all’impazzata da salto a salto, tra scoglio e scoglio, formando un mare di gorghi e di spume! E’ mi pareva di veder da una parte il gran mondo , col suo fracasso, colle sue ire, co’ suoi tumulti, colle sue guerre; dall’altra il filosofo, l’asceta, che, tranquillo, silenzioso, appartato dal mondo, pensa, prega, lavora. Là quanto ha di ciò che più appare, di ciò che più mena romore, ma si risolve in una massa di spume; qui invece vi ha di più modesto, di più obliato o spregiato, ma che infine approda a vero bene e a tutto vantaggio dell’umanità.”
In ultimo non si può tralasciare quanto scriveva Stoppani, 150 anni fa, sempre nel suo già citato libro, a proposito della nostra attitudine esterofila alla poca cura delle nostre bellezze; considerazioni non ancora smentite: “All’amor di patria si perdona ben altro. Non sapete del resto quante cose congiurano talvolta a farci ammiratori di un oggetto, mentre un altro somigliante, od anche più bello, non incontra che l’indifferenza e lo sprezzo? Il Reno, per esempio, spicca il suo salto, maraviglioso senza dubbio, quasi alle porte di una bella città, a fianco di una ferrovia, in mezzo ai palagi, ai comodi alberghi, a tutto quello che invita i forestieri ad accorrere ed a rimanere. L’Adda invece scorre solitaria nel suo letto, lontana da ogni centro popoloso, in mezzo al silenzio, in seno alla solitudine.. Il Reno, ammirato ogni anno da migliaja e migliaja di forestieri, ode in tutte le lingue del globo le sue lodi, ed ha a sua disposizione le cento trombe della fama: guide, giornali, fotografie che ne spandono il nome ai quattro venti. L’Adda non ascoltò forse mai altra lingua che quella che non è lingua, voglio dire il lombardo: non vede che i Lombardi, e pochi anche di questi. Vi ricordate quanti artifici furono suggeriti dall’amor del guadagno per accrescere le naturali attrattive della cascata del Reno? Invece qui, gallerie, ballatoi, padiglioni, tutto si riduce al sentieruzzo percorso dai cavalli che tirano le barche a ritroso della corrente. Non alberghi, non caffè, nemmeno una bettola là vicino ove sedersi a mangiare un boccone. Poi… poi sempre quell’idolatria delle cose forestiere, e quella noncuranza, quell’ignoranza delle cose nostrane, che sono una delle nostre magagne più grosse e più incurabili. L’Adda non è anch’essa un fiume maestoso? Se non salta ad un tratto da un’altezza di 19 metri, non rotola forse le sue spume giù giù per una china di 27 metri e più, sopra un corso di due chilometri e mezzo? L’Adda è gloriosa anch’essa di un’industria maravigliosa, forse più utile della trasmissione telodinamica, certo molto più antica, che rende testimonianza al genio degli abitatori delle sue sponde, a quel genio che splendeva come un faro in mezzo alle tenebre più fitte ond’erano involti altri popoli, ora così superbi di una tarda civiltà ch’ebbero a ufo, dopo che fu maturata da altri col lavoro pertinace di tanti secoli”.
Chissà cosa penserebbe oggi lo Stoppani, rivisitando “la rapida dell’Adda a Paderno”, vedendo il naviglio completamente in rovina, ma con un grandioso ponte in ferro, sopra al quale passa pure la ferrovia e con le centrali idroelettriche che avrebbero fatto concorrenza alla trasmissione telodinamica di Sciaffusa (trasmissione del moto a distanza tramite un cavo di acciaio che collega il rotore, mosso da una turbina, ad una puleggia e questa ad altri cavi per il movimento delle macchine dentro la fabbrica).
Dopo tutto questo, si sente ancora più forte il desiderio di veder valorizzato questo territorio con più lungimiranza, di propagandare le sue immagini e la sua storia millenaria affinché i cittadini del mondo ne possano beneficiare, con conseguente giovamento alla visibilità e all’economia di tutta la zona. Si auspica che questi beni possano, un giorno, diventare patrimonio dell’umanità. La perfetta descrizione che i tre personaggi hanno fatto dei nostri luoghi ci lascia stupefatti, consapevoli e orgogliosi di vivere in cotanta e meravigliosa bellezza.
Guido Stucchi
Bibliografia essenziale
Habitat-Centro di iniziative culturali, Paderno d’Adda, storie di acqua e di uomini, Paderno d’Adda (LC), 1989 – da questa edizione sono tratte alcune delle fotografie a corredo
Cantù, Cesare, Margherita Pusterla (1838) e Sull’Adda (1884)
Stoppani Antonio, Il Bel Paese (1876 e 1881)
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L’Ecomuseo Adda di Leonardo ringrazia Guido Stucchi per l’alto senso civico e l’instancabile competenza con cui collabora a questo portale e all’interpretazione del nostre territorio. Si ringrazia inoltre Linda Stucchi per la collaborazione tecnico-informatica.
Articolo, come sempre sono i tuoi scritti, coinvolgente, ricco ed interessante, con splendide fotografie, Livia
È sempre un piacere leggere di estimatori del nostro territorio, poi Guido Stucchi si cala nella descrizione “in mundo scribere” ai tempi dei Cantú e Stoppani con i suoi fantastici “giovamento” e “cotanta” trascinando il lettore a ritroso nel tempo. Complimenti.
Grazie Virgilio! Mancava un contributo di sintesi sulla forra d’Adda: con sapienza e umiltà, Guido ha saputo raccogliere un copione nutriente anche per gli accompagnatori turistici al lavoro sul nostro territorio. Ci ritroviamo presto lì, lungo il fiume, in salute e serenità!
Molto, molto interessante! io non sono mai stato esterofilo (a parte per certi, troppi, politici e per l’ottusità dei nostri governanti, in tutti i campi ma soprattutto in quello artistico) però non conoscevo fino in fondo questa zona, vicina alla Milano in cui abito.
GRAZIE
E’ una zona bellissima e la ringrazio per il suo commento. Colgo l’occasione per invitarla, se può interessarle, a seguire i canali Facebook e Instagram dell’Ecomuseo Adda di Leonardo per conoscere le proposte di scoperta dei nostri luoghi e dei beni culturali da parte delle associazioni del territorio con cui collaboriamo. Purtroppo il nostro territorio, un po’ nascosto ai confini di quattro provincie, è poco “visibile” e “leggibile” da chi non lo conosce. Stiamo lavorando per rimediare e valorizzare sempre di più i luoghi.